Le storie che compongono l’epopea della letteratura moderna americana sono per la maggior parte avvolte in un’atmosfera d’altri tempi: Dick Stern che convince Philip Roth a scrivere Goodbye, Columbus (1959) dopo aver mangiato un hamburger in condizioni igieniche precarie, John Cheever e Raymond Carver che si ubriacano tra i dormitori dell’Iowa Writers’ Workshop, Bernard Malamud che vive di una mela e un litro di caffè al giorno in un palazzo che aspetta di essere demolito. Probabilmente è vero che le leggende nascono in un minuto come bugie e impiegano anni a essere ricordate come verità, ma pare che il panorama letterario americano si sia fermato al mito dei primi settant’anni del Novecento.
Allo stesso modo, i romanzieri esordienti pescano miti e ispirazione a due generazioni di distanza dalla propria. Non è un caso se la rivisitazione del passato ricorre tanto prepotentemente tra gli esordi: tornare indietro è il modo per avvicinarsi ai propri modelli. Molti dei giovani autori che alimentano il famoso milione di libri stampati all’anno trovano i loro riferimenti stilistici in maestri del secolo scorso, saltando a piè pari e quasi completamente un blocco di scrittori attivi dagli anni Ottanta in poi, che evidentemente non ha lasciato granché di sé ai posteri…
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[Foto in apertura di Peter Granser / Laif / Contrasto]
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