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Agli inizi degli anni Cinquanta Philip K. Dick divideva il suo tempo fra il lavoro in un negozio di dischi e i quaderni su cui componeva le sue storie, ma se qualcuno gli chiedeva che cosa facesse, la risposta arrivava senza esitazione: «Lo scrittore». Il problema era che a Berkeley, la città in cui viveva, praticamente nessuno leggeva science fiction, e quando gli amici venivano a sapere della sua attività, la domanda successiva era: «E le tue opere serie?». A distanza di quasi settant’anni Dick è uno degli autori seminali del nostro tempo, con adattamenti realizzati per il fumetto, la radio, il cinema e la televisione, ma soprattutto con un concetto di fantascienza assolutamente visionario.
Nell’opera dello statunitense è raccolta l’eredità della sci-fi classica – col suo stupore per la scoperta e lo sgomento dell’ignoto – ma sono perfettamente fissate tanto le inquietudini del contemporaneo quanto le visioni avveniristiche di un futuro sconcertante. L’ha capito bene l’industria cinematografica, che negli ultimi 35 anni ha attinto a pieno ritmo dal mare magnum degli scritti di Phil Dick, una raccolta di 44 romanzi e 121 racconti che ha stravolto l’immaginario occidentale aprendo una profonda riflessione su memoria e identità.
I concetti di umano e post-umano, lo scontro fra la tecnica e la meccanizzazione, la potenza del sogno lovecraftiano e le dinamiche spiraliformi proprie della narrazione di Kafka trovano spazio nelle storie folgoranti di questo autore ultraprolifico, che proprio nel 2017 incontra un’ulteriore consacrazione mainstream.
All’uscita nelle sale dell’atteso Blade Runner 2049 è infatti corrisposto il lancio della serie tv Philip K. Dick’s Electric Dreams per la britannica Channel 4, due prodotti audiovisivi decisamente distanti ma con alcuni fondamentali tratti in comune. Primo fra questi, la grande libertà di ispirazione che gli sceneggiatori hanno mantenuto nella trasposizione su schermo, dato che gli episodi per la televisione si discostano sensibilmente dalle short stories di Dick, così come il sequel firmato da Denis Villeneuve trae semplicemente spunto dai personaggi de Il cacciatore di androidi.
Composta da dieci episodi – di cui al momento sono disponibili i primi cinque – Philip K. Dick’s Electric Dreams è una serie antologica che attinge agli esordi narrativi dell’autore di Chicago, prodotti nella prima metà degli anni ’50 e pubblicati su riviste mitiche come Amazing Stories e Imagination. Fin dal primo episodio sembra evidente che la produzione abbia tenuto in forte considerazione sia le atmosfere della trasposizione di The Man in the High Castle (targata Amazon) sia il successo fantascientifico di Black Mirror, la serie che proprio da Channel 4 è poi approdata a Netflix.
Attingendo al periodo più prolifico e allo stesso tempo più composito della carriera di Dick, questi Electric Dreams sviluppano alcuni dei suoi temi cardine, indagando le azioni e le relazioni umane in contesti decisamente “fuor di sesto”. The Hood Maker, primo e finora miglior episodio trasmesso, racconta dell’investigazione dell’agente Ross e della telepate Honor attraverso lo sviluppo del loro rapporto. In un mondo in piena agitazione, il talento nella lettura della mente è un’onta degna di esclusione sociale, che agisce tanto a livello macro-politico quanto nelle singole interazioni.
Come nello spielberghiano Minority Report, le evoluzioni/mutazioni umane generano conflitti e paure che si riverberano sulle vite quotidiane dei personaggi, cambiandone il corso in modalità inattese. È questo il caso di Impossible Planet e The Commuter, storie nelle quali le tranquille esistenze di due impiegati vengono scosse da incontri inaspettati: un plot classico della letteratura, che però in Dick causa fratture di carattere esistenziale e perfino dimensionale.
In Impossible Planet passato e presente arrivano a confondersi, attuando nello spettatore quell’inquieto spaesamento che è tipico delle short stories originali. Mondi distanti anni luce si sovrappongono, i ricordi divengono reali, fino ad arrivare a una rielaborazione del concetto di causa ed effetto con gli universi paralleli di The Commuter.
Con l’episodio Crazy Diamond, gli Electric Dreams di produzione britannica entrano invece in una realtà dai tratti ordinari, dove fantastico e fantascienza si mescolano con notevole libertà. Eppure, come scriveva Carlo Pagetti in una prefazione per Fanucci ai racconti di Dick, «quasi mai viene dimenticato il tessuto dell’esistenza quotidiana, la dimensione della “piccola città” americana, al cui interno si annidano forze sotterranee e mostri incontrollabili». Un’ordinarietà talmente misteriosa da attrarre milioni di telespettatori a oltre sessant’anni dalla sua invenzione.
[Foto in apertura di Christopher Raphael / Sony Pictures Television]
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