Princeton. I promessi sposi è il romanzo preferito del papa. Lo ha dichiarato quasi subito ai giornalisti italiani, e qualcuno ha pensato si trattasse di una forma di seduzione facilona, di quelle che fanno urlare il nome della squadra locale all’inizio di ogni tappa nelle campagne elettorali dei telefilm americani. L’italianità, invece, c’entra poco, come d’altronde la cristianissima provvidenza che domina nelle fitte annotazioni delle edizioni scolastiche: al papa piace proprio la storia.
Con disarmante opportunità la consiglia agli innamorati, alle giovani coppie, a quelli che, come si dice, si mettono insieme. Ai promessi sposi insomma, che così difficilmente oggi riescono a trovare il coraggio (e i soldi) per sposarsi sul serio. Se Borges e Singleton ci hanno spiegato, dalle Americhe, che Dante è l’autore di una storia d’amore on the road, Bergoglio ci ricorda che Manzoni ha scritto, sostanzialmente, di fidanzati. Del resto, pur figlio di migranti piemontesi, le superiori le ha fatte in Argentina (perito chimico, dice Wikipedia), fuori dalle utopie uniformanti dei nostrani programmi liceali, cronologici in tutto tranne che nelle letture ineludibili.
Da noi, nelle aule in cui i ragazzini li leggono a turno ad alta voce, Manzoni e Dante si somministrano infatti fuori dalla Storia e con poco interesse per le storie, come se certi libri fossero lunghissime parole magiche da pronunciare assolutamente in coro prima di raggiungere la maturità. Si leggono in codice, un po’ estranei al proprio stesso testo, come il menzognero giuramento d’Ippocrate alle lauree di Medicina e il latino da sciorinare anche allo scientifico, che “non serve” eppure trasforma: la chiave è la stessa per tutti, l’interpretazione si riceve e si tramanda, come una comunione. Di tutto ciò, più o meno, la scuola dell’obbligo ha convinto i miei nonni, i miei genitori e me, ma non il papa. E tuttavia l’incerta lettura collettiva, incespicando sull’accento di “Carneade” e “stradicciola”, continua tutt’ora anche in posti come il liceo Marconi a New York, il Galilei a Istanbul e l’Amaldi a Barcellona.
È forse a causa di questa ecumenica e un po’ svogliata esperienza identitaria, anti-classista e intergenerazionale come i rituali della scuola di Harry Potter, che tutti gli italiani con cui ne ho parlato hanno immediatamente creduto alla conturbante ma sostanzialmente sbagliata lista di libri obbligatori nazionali che Daryl Chen e Laura McClure hanno messo insieme qualche mese fa: un post su ideas.ted.com in cui si tenta di elencare i classici più assegnati nelle scuole di ventotto Paesi. Si parte dal Corano in Afghanistan e si chiude con Il racconto di Kieu, un poema epico vietnamita dell’Ottocento in cui, tra le altre cose, la Kieu del titolo non riesce a sposarsi col suo promesso (e la provvidenza non la aiuta granché)…
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[Foto in apertura di Nicholas Rigg / getty images]
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