Dal numero di pagina99 in edicola il 15 ottobre 2016
“Curazionismo” è un lemma da inserire nella lista delle parole orrende del nostro tempo. L’idea di trovarsi, o di avere attraversato, l’epoca del curazionismo fa ribrezzo. Tuttavia, comunque lo si voglia chiamare, è verissimo che il fenomeno ha assunto proporzioni talmente imponenti da riempire scaffali di biblioteche, dipartimenti universitari e, in un’accezione più ampia di quella espositiva, ha plasmato in modo irreversibile le nostre vite individuali e collettive, o meglio i nostri lifestyle. Questa, almeno, è la versione di uno degli ultimi saggi stampati e tradotti sull’argomento, Curationism. How Curating Took Over the Art World and Everything Else (tradotto in italiano col titolo Curatori d’assalto), del critico canadese David Balzer.
«A che cosa si deve l’ascesa del curatore? In che modo questa attività è filtrata nella cultura di massa, o, più precisamente, nel consumismo di massa? […] La mia tesi è che, all’incirca dalla metà degli anni Novanta, ci troviamo a vivere in un tempo in cui le istituzioni e le attività commerciali affidano a terzi la gestione di un’immagine espressiva che sia garanzia di valore, nel tentativo di corteggiare varie categorie di pubblico e consumatori per stabilire solide fidelizzazioni. In quanto pubblico e consumatori, tutti noi siamo chiamati in causa per coltivare e organizzare al meglio le nostre identità seguendo le indicazioni ricevute». Balzer mette sullo stesso piano l’emersione autoriale dell’attività di curatela nel mondo dell’arte, e poi dell’editoria, della moda, delle attività commerciali, con l’ossessione per le playlist, i profili social, con il culto della customizzazione e della differenziazione che si è affermato nell’era cognitiva.
Il sottofondo dichiarato, ma non esplicitato in ogni pagina, è la Grammatica della moltitudine di Paolo Virno, diventato paradossalmente una bibbia per moltissimi curatori: nell’interpretazione di Balzer, il processo di individuazione compiuto dalla moltitudine è messo continuamente a valore per mezzo dei curatori. E d’altra parte, «avallando collettivamente questo processo di fondazione di una certa idea di valore, tutti noi ci accolliamo, spesso involontariamente, nuove responsabilità personali e professionali».
Nonostante la premessa, il libro non è affatto configurato come un saggio teorico, ma mantiene un registro fortemente narrativo, quasi mondano. A tratti assomiglia a una di quelle analisi sullo star system – del mondo letterario, architettonico, artistico – piene di notizie sui tic e le leggende di personaggi universalmente noti. Leggiamo di Obrist che si aumenta lo stipendio alla Serpentine come un parlamentare italiano; delle camicie nere di Beatrix Ruf; delle critiche feroci («Gli unici atteggiamenti dittatoriali a cui questa biennale è andata incontro sono quelli dei curatori», scrisse Ralph Rugoff a proposito della Biennale di Bonami La dittatura dello spettatore, che coinvolgeva Orozco, Tiravanija, Gioni e Obrist).
La presa di distanza di Balzer non è motivata solo da ragioni stilistiche di buona scrittura e leggibilità, ma anche da una consapevole diffidenza verso l’uso sguaiato e superficiale della Theory – quell’insieme di saperi riconducibile al poststrutturalismo europeo e all’area dei cultural studies – messo in atto dalla genia dei curatori. In seguito alla iperprofessionalizzazione dell’attività curatoriale e della proliferazione di corsi universitari e master e residenze sul tema, si è imposta una contaminazione ottusa tra accademia e sistema delle arti, che produce mostre sempre più mainstream descritte attraverso bricolage di concetti base postoperaisti o postcolonial (una mitragliata di post) rimasticati in un linguaggio al tempo stesso oscuro e iconico.
E in effetti, rispetto alla stagione seminale delle mostre di Restany, di Celant o di Szeeman, dominate dalla personalità egocentrica dei curatori ma in cui le opere d’arte – materiali o immateriali che fossero – restavano al centro dell’attenzione, oggi capita più spesso di trovarsi di fronte a una folla di artisti e opere ammassati più per dimostrare la presunta profondità della ricerca del curatore che per qualsiasi motivo inerente alla loro essenza. L’ultima biennale di Okwui Enwezor, compendio di marxismo postcolonial, e la contemporanea mostra Trussardi La Grande Madre al palazzo Reale di Milano di Massimiliano Gioni, che sembrava uscita da un manuale di Gender Studies degli anni ’90, sono prodotti esemplari di questa reazionaria tendenza.
Reazionaria non solo perché normalizza il conflitto, omologa la diversità delle posizioni, sussume le energie più vive del pensiero critico, mettendole al servizio della comunicazione di un brand o di istituzioni assai poco rivoluzionarie. Questa ambiguità è sempre stata presente nella storia della produzione artistica, e molti artisti hanno potuto realizzare progetti straordinari grazie a committenti reprensibili. La componente più reazionaria del sistema curatoriale, soprattutto quello indipendente, è l’annullamento della critica, e in certa misura anche della produzione di contenuto, di pensiero, perché curare equivale a selezionare, cioè a un’azione sull’asse inclusione/esclusione, quanto mai esposta a criteri idiosincratici e generalmente svincolata dalla necessità di argomentare.
Con l’estensione del paradigma curatoriale ad altri ambiti, per esempio nel campo editoriale o nell’accademia, lo spazio della critica si è ridotto fino all’inconsistenza, in nome del principio autoevidente della selezione: si parla solo delle cose interessanti e buone, quelle che non lo sono non vanno criticate, attaccate, ma semplicemente scartate, rimosse, condannate al silenzio. È una posizione comoda per tutti, che rafforza un sistema di relazioni completamente scollegato da valutazioni di ordine politico, etico, di affinità o incompatibilità intellettuale. La competenza più importante per un curatore è la capacità relazionale, la bravura nel tessere reti – che di orizzontale, per inciso, non hanno nulla – meglio se trasversali, plurali, terziste.
Portatore di un fare tutt’altro che postideologico, anzi intrinsecamente neoliberale, il curatore è diventato così la figura chiave della fase declinante dell’industria culturale: ha sostituito la più contigua, quella dell’editor (ci sono redattori che oggi pretendono di essere definiti curatori nei colophon delle riviste), cancellando le altre competenze necessarie alla qualità dei testi. È penetrato nelle scuole e nelle accademie, dove oramai sembra che la cosa più importante sia attirare nomi prestigiosi piuttosto che organizzare la qualità dell’insegnamento. Imbastisce concorsi architettonici, ed è diventato persino un punto di riferimento fondamentale quando si pensa a un candidato sindaco, o a un assessore alla cultura, o all’urbanistica, come è successo nel caso emblematico di Edi Rama a Tirana: come se il ruolo principale di un politico fosse quello di organizzare eventi mediatici per «cambiare la percezione degli abitanti» riguardo alla propria città.
Per le generazioni che si affacciano al mondo del lavoro la curatela è quasi uno status necessario alla costruzione di una qualsiasi altra prospettiva lavorativa: i giornalisti free-lance hanno bisogno di curare per mettere insieme qualche soldo, ma anche per intercettare possibilità di collaborazione a progetti, riviste, enti. I giovani artisti non fanno che aprire i cosiddetti artist-run spaces, o spazi indipendenti, per consolidare attraverso una rete di scambi e comunicazione la propria precaria identità e tentare di entrare in un sistema economico. Quella che un tempo era la lineare e odiosa gavetta universitaria al seguito del barone viene elusa a opera dei più intraprendenti grazie alla cura di infiniti incontri e workshop, che debitamente registrati forniscono anche materiale, per lo più inutile ma di un certo prestigio, per le pubblicazioni.
Non si può non riconoscere una grande vitalità tattica a queste operazioni che tentano di aggirare l’irrigidimento delle istituzioni culturali, di erodere i meccanismi che ne ostacolano l’accesso. Il problema è che a farne le spese è la sostanza stessa della cultura, lo spirito critico, soffocato dalla microfisica dei circuiti di scambio attivati dalla curatela. In una società di curatori tutti si intervistano a vicenda, senza contraddirsi perché non conviene. La mistificazione, la finta ricerca, la denuncia astratta, sono la norma, perché nessuno può compromettersi descrivendo quel che realmente ha davanti agli occhi, pena l’esclusione. Storicamente pochi hanno il coraggio di riconoscere la nudità del re, ma in questo sistema anche il ciambellano di corte è al sicuro.
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