Con l’inversione da sinistra a destra, decisa ai piani alti, il M5S sacrifica i diritti civili sull’altare delle vecchie tattiche di palazzo
Cambiare idea è sempre lecito, per carità. Ma certe tempistiche sono schiaccianti. Inevitabile fare due più due, ora che la discussione sul disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili è appena slittata al prossimo mercoledì 24 febbraio. Perché la battuta d’arresto porta soprattutto la firma del Movimento Cinque Stelle, il partito nato come anti-sistema che adesso vorrebbe diventare adulto candidandosi a governare molte grandi città italiane. I pentastellati hanno deciso di non votare il cosiddetto “supercanguro” firmato dal piddino Andrea Marcucci, l’emendamento che se approvato avrebbe blindato il ddl eliminando le modifiche proposte dalle opposizioni. Comprese quelle relative al discusso articolo 5, che consente la stepchild adoption. Una norma che si limita a riconoscere legami affettivi già presenti, qui e ora, nella nostra società, e che sarebbe solo un primo passo verso una uguaglianza di diritti per le coppie gay.
La defezione grillina – «tradimento», dicono dal Pd – fa saltare un equilibrio precario. Bisogna ripercorrere i fatti, guardarli in controluce: all’inizio, infatti, per il Movimento la legge Cirinnà era l’espressione di una battaglia civile «da votare se non la toccate». Poi la ditta Grillo&Casaleggio ha concesso «libertà di coscienza», principio sacrosanto che spesso in politichese è un elegante espediente per aprire la strada ad accordi sottobanco e calcoli di consenso, sondaggi alla mano. Infine il veto di ieri.
Cambiare idea è lecito, si diceva. Ma un’inversione a U su posizioni tanto delicate è una scelta che sa di trasformismo opportunista: non serve un fine analista parlamentare per capire che è un modo per mettere in difficoltà il principale partito al governo, che sulla questione è già lacerato al proprio interno. La politica nelle stanze dei bottoni è anche questo, e nemmeno ci sarebbe da indignarsi più di tanto. Se non fosse che a orientarsi così è il partito che ha disegnato la propria bandiera con gli stemmi della diversità, della trasparenza e della coerenza senza se e senza ma. Al punto che il direttorio ha appena fatto firmare l’impegno a dimettersi e a pagare una multa da 150 mila euro (sì, una multa, da 150 mila euro) ai candidati alle amministrative che si macchino di “danni all’immagine”.
A insindacabile giudizio, ovviamente, di Grillo e Casaleggio (ma quanto ha danneggiato l’immagine dei 5 stelle il voltafaccia sulle unioni civili deciso ai piani alti?). I quali, dunque, si dotano di uno strumento in più per epurare i dissidenti. Nascosti dietro quella bandiera autoproclamata integerrima, ma che non esitano a trasformare in banderuola, svolazzando da sinistra a destra proprio sui temi che dovrebbero restituire alla politica il suo senso più alto. Le questioni civili, i diritti dell’essere umano, sacrificati sull’altare della tattica di palazzo. Con buona pace di quella parte non marginale di elettorato che, forse, alla novità politica del Movimento ci aveva creduto.
[Foto di Augusto Casasoli /A3 / Contrasto]
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